Opinioni Rassegna Stampa

Intervista a Brahim Baya: “Nella precaria situazione delle donne nelle comunità islamiche il credo non c’entra, è un problema di arretratezze culturali”

Di OTTAVIA GIUSTETTI
«Concedere la libertà a una figlia femmina può essere un passaggio difficile per un padre che appartiene a ogni cultura. Non intendo minimizzare questo episodio, che è grave. Ancor più perché danneggia il nostro faticoso cammino per la piena integrazione. Però non è un fatto che deriva dal credo religioso, è un problema culturale: la difficoltà di spogliarsi delle vecchie abitudini per coloro che provengono dalle zone rurali del Nordafrica». Brahim Baya, italiano di origini marocchine, 34 anni, sposato e papà di una figlia femmina, è segretario dell’Associazione Islamica delle Alpi. «Purtroppo — dice — diverse visioni dell’educazione dei figli convivono ancora all’interno della nostra stessa comunità».
C’è chi la pensa come El Moustafà Hayan, l’uomo di Livorno Ferraris che ha tentato di investire la figlia con l’auto perché non accettava che andasse a un colloquio di lavoro da sola.
«È in minoranza, ma certo ancora esiste. È straordinario che lo pensi fino al punto di compiere un gesto come quello. Sono gli immigrati della prima generazione, quelli che arrivano dalle campagne, che fanno ancora molta fatica ad accettare di mantenere aperto un dialogo all’interno della famiglia e tra la famiglia e il contesto esterno».
Come si può aiutarli a diventare cittadini italiani anche dal punto d vista culturale e delle abitudini?
«Noi insistiamo moltissimo affinché questi appartenenti alla comunità comprendano che devono accettare e fare proprie le abituni del Paese che hanno scelto per vivere. La strada giusta è avere le idee chiare su quello che vogliamo essere in questa società, nel rispetto delle abitudini degli altri e senza doverci spogliare della nostra fede religiosa».
Parla di abitudini contadine. Cosa intende?
«Molte delle persone che sono arrivate qui dal Nordafrica non provengono dalle città ma dalla provincia. Non hanno mai metabolizzato le differenze culturali prima di arrivare in Italia: quanto più è cosmopolita il luogo in cui si trovano adesso, tanto è piùdifficile abituarsi ai costumi del contesto che li circonda».
La ragazza di Livorno Ferraris si faceva chiamare Miriam anziché Meryan. Forse anche lei aveva qualche difficoltà a farsi accettare come “straniera”?
«È possibile. Accade spesso ai giovani. A volte è un’idea che nasce per sentirsi più accettati dai compagni di scuola, dalla comunità di coetanei. È proprio quella rinuncia alle origini di cui parlavo e di cui non dovrebbe esserci bisogno. Forse un comportamento che ha ulteriormente irrigidito il padre, più anziano e conservatore».
Si sta aggravando, dal vostro punto di vista, il problema della intolleranza di questi tempi?
«Noi ce ne accorgiamo che qualcosa sta cambiando. Non solo dall’altra parte del mondo — e mi riferisco alla strage nella moschea in Nuova Zelanda — ma proprio qui da noi. Te ne accorgi a volte da piccole cose: uno sguardo, una parola sui mezzi pubblici. C’è sicuramente una situazione di insofferenza da parte del contesto che ci ha accolti e drammatico è che ci sia qualcuno che la fomenta, che fa dell’intolleranza uno spettacolo per ottenere consenso politico».
Il problema della poca emancipazione delle donne nella comunità musulmana, però, sopravvive.
«Purtroppo sì, e noi giovani combattiamo quotidianamente per restituire alle donne il ruolo che spetta loro: di parità assoluta, come dicono anche i testi sacri che stiamo ritraducendo e reinterpretando. Le stesse donne già ora lottano per uscire da una posizione di subalternità».

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